PREMIATI
Premio Speciale 'Giuseppe Bartolomei' attribuito dalla Commissione di lettura
La storia dei miei cinque anni di guerra
“La notte l’avevamo passata alla zona periferica di Brest; all’alba eravamo già in movimento. Il passaggio ere in parte offuscato dalla foschia e la visione dell’immensa pianura, del terreno paludoso in ebollizione era grigia, misera, bruciacchiata. Il treno correva lentamente al largo di un villaggio, quando ad assistere al nostro passaggio due uomini dall’aspetto anziani, dalla barba folta e malvestiti s’erano avvicinati al terrapieno della ferrovia ed ebbero a fare degli strani gesti in risposta ai nostri saluti. Con le mani alzate erano a mimarci il taglio alla gola e il colpo di grazia alla testa. L’episodio non era certo un buon augurio per noi […]“
A differenza dei giorni opachi di marzo, quelli di aprile furono e passarono veloci ricchi di avvenimenti: i tedeschi i cosiddetti signori della guerra in quei giorni convulsi erano ad iniziare la loro Capporetto, travolti, inseguiti dalle truppe anglo americane venivano cacciati oltre confine, e fu allora che l’Italia con il 25 aprile poté festeggiare la sua liberazione ed io chiudere la storia dei miei cinque anni di guerra. Si conclude così la memoria fluviale di Sante Mucchietto: quasi 250 pagine scritte a mano in cui l’autore ripercorre l’infinita catena di avvenimenti che hanno segnato gli anni cruciali della sua vita. Dopo una breve premessa sulle sue origini, Sante si focalizza sul quinquennio che va dal 1940 al 1945: l’arruolamento nel Regio esercito come volontario, la partecipazione alla guerra, l’invio in Russia, il coinvolgimento nella drammatica ritirata del Don, il rientro in Italia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, viene catturato dai tedeschi a Bolzano ma la prigionia è breve: Sante riesce a scappare e la sua storia cambia radicalmente. Tornato nelle sue terre di origine, pur circondato da parenti e amici filofascisti, inizia a collaborare con le forze della resistenza attive nella provincia di Vicenza e di Padova fino alla Liberazione. Nessun ricordo di quei giorni memorabili è andato perduto, come testimonia il racconto travolgente che ha scritto tra il 1985 e il 1990.
Alma sei ricca in amor
“1 Marzo- Mercoledì delle Ceneri – 1876
Caro Angelo, eccoci in un’epoca molto seria. Ieri ho fatto delle risoluzioni molto serie e ricomincio a farle oggi, ieri sera non ho potuto fare le preghiere che avrei voluto perché sono stata a teatro e sono stata un poco indisposta, ma stasera posso bene concentrarmi per pensare a tutte le grazie che Dio mi ha concesso finora […]“
Diari e memorie compongono un’opera monumentale, che copre quasi cinquant’anni di vita dell’autrice tra il 1876 e il 1924. A comporli è una nobildonna di origini venete, Maria Camerini Scola, primogenita del conte Giovanni e della contessa Luisa Raimondi di Podio. Sin dall’età di 12 anni, Maria avvia una cronaca fittissima della sua quotidianità, trascorsa per lo più tra le mura domestiche e nell’alveo della famiglia che costruisce insieme al barone Bartolomeo Scola di Creazzo, da cui avrà quattro figli: Carola, Giovanni, Luisa e Giuseppe. La salute dei propri cari e il tentativo di preservarli dalle malattie sono alcuni dei temi che ricorrono con maggiore frequenza nella testimonianza: tra le prove più difficili, la battaglia contro l’asma che vedrà soccombere il marito nel 1924, a soli sessant’anni, dopo un lungo periodo di sofferenze. Ma non è l’unica: i quaderni di Maria sono disseminati di pagine dolorose nelle quali annuncia la perdita di carissimi amici, dei genitori, della giovane sorella Berta a soli venticinque anni, del fratello Francesco poco più che trentenne, mentre la sorella Isabella lotterà per tutta la vita contro la tisi. A bilanciare le difficoltà e a riempire di significati l’esistenza di questa donna colta e ben istruita, che parla fluentemente diverse lingue, arriva soprattutto la curiosità intellettuale. La passione per la lettura, che coltiva assiduamente, ma soprattutto una naturale inclinazione per ogni forma d’arte che ammira e pratica. Maria è infatti un’abile scultrice e pittrice, come testimoniano ancora oggi le opere che ha lasciato e che sono conservate in gran parte a Villa Scola Camerini in provincia di Vicenza.
“Papà, la bandiera!”
“Marzo o Aprile 1911; in quell’epoca all’incirca è accaduto quanto sto per raccontarvi. La giornata era bellissima; una delle prime di primavera, assolata e calda; di quelle che danno un senso di languore, di spossatezza, insieme alla gioiosa impressione di essere ormai fuori dall’inverno. Mio nonno, l’ingegnere architetto, doveva andare a sorvegliare se i lavori delle fognature di Via Marmorata procedessero a dovere. Era ingegnere al Comune e svolgeva i suoi compiti d’ufficio. Non so se a mia nonna o a mia madre venne l’idea di proporgli di portarmi con sé; io non avevo ancora sei anni; ero bellino ed elegantissimo, perché mia madre vestiva sempre me e mio fratello nel modo più accurato, alla moda, e qualche volta anche con delle sue idee, che erano però sempre piene di buon gusto. Forse mio nonno, lusingato dall’orgoglio di portarsi un nipotino attraente, accettò e ci mettemmo in cammino […]”
La memoria di Piero Modigliani è un libro aperto su un mondo che non esiste più, un’epoca nemmeno troppo lontana fatta di oggetti, luoghi e abitudini che ci appartengono, ma sono sparite. Sparite come la Roma in cui è nato e cresciuto, all’inizio del ‘900: di origini ebraiche, Modigliani racconta la vita nei quartieri del centro storico prima della rivoluzione urbanistica voluta dal fascismo, con uno sguardo particolare sulla realtà del ghetto romano di inizio secolo. Nei suoi ricordi, trovano spazio pagine di storia memorabili come quella sul giorno dell’armistizio della Prima guerra mondiale: Per la strada udii, provenienti da via Nazionale, degli strilloni che urlavano a squarciagola una notizia di cui non capii il senso, se non avvicinandomi da via Genova e afferrai le parole, nel trambusto e nel movimento della gente che sembrava impazzita: “È finita la guerra! È stato firmato l’armistizio con l’Austria!” Fui talmente elettrizzato che non sentii più nessuna debolezza alle gambe, corsi a casa salendo rapidamente le scale (fortunatamente abitavamo al primo piano) ed entrai a casa urlando: “Papà, la bandiera!”. Questa bandiera era stata preparata da anni; ma mio padre aveva dichiarato che sarebbe stata esposta solo il giorno in cui la guerra sarebbe stata finita vittoriosamente. Finalmente quel giorno era arrivato e potei vederla sventolare all’ultima luce del pomeriggio. E poi c’è il Tevere, il fiume che attraversa la capitale nel quale Piero, da ragazzo, nuota spensieratamente. Le lunghe giornate passate in canoa a risalire e ridiscendere la corrente, tra Ponte Milvio e l’Acqua Acetosa, cesseranno solo dopo un drammatico incidente, quando il suo più caro amico, Sergio, perderà la vita per un contagio da leptospirosi contratto proprio nelle acque del fiume.
Le emozioni di una vita
“5 luglio 1969 Leggevo “Estate ’69″6 di Feltrinelli. Divoravo l’opuscoletto del nostro moderno Don Chisciotte; ci si sentiva tutto il patetico difensore italiano del “Che”. Volevo fare bella figura parlandone con alcuni miei nipoti, studenti, che stavano per arrivare dal Mugello. Loro, insieme con il loro parentado romano, sono fanatici contestatori. Partecipano regolarmente a tutte le manifestazioni antiamerica e quando c’è uno sciopero, lasciano lo studio e vanno all’ingresso delle fabbriche; si sono specializzati nell’azione di picchettaggio. La contestazione è la moda di questa calda estate […]”
Ottorino Orlandini non è un “italiano qualunque”, uno di quegli autori di diari o di memorie che attraverso l’Archivio di Pieve Santo Stefano riescono a sprigionare una voce altrimenti destinata a rimanere nell’oblio della storia. Già combattente nella Prima guerra mondiale, sindacalista a capo delle Leghe Bianche nel Mugello a partire dal 1919, poi volontario nella guerra di Spagna sotto la bandiera di Giustizia e Libertà con Carlo Rosselli, e ancora antifascista, confinato in Francia e partigiano alla guida delle formazioni del Partito d’Azione in Toscana: Orlandini è stato un grande protagonista della storia italiana del ‘900. La sua biografia è oggetto di studio e in gran parte nota, ma tra gli anni Cinquanta e Sessanta è lo stesso Ottorino ad avvertire il bisogno di scrivere un memoriale, da lasciare in eredità ai familiari e non solo, per rendere eterno il racconto dei fatti salienti della sua vita, ma soprattutto l’intensità e l’importanza delle emozioni provate. Seguendo questo affascinante criterio, e dopo diverse stesure, nascono i 32 capitoli della sua memoria, sganciati da un rigoroso ordine cronologico, ma fortemente incardinati nei passaggi cruciali della sua vita. Ogni capitolo, ogni risvolto di vita, viene introdotto da Orlandini partendo dall’attualità in cui scrive, nell’anno 1969 in cui pone mano all’ultima versione della sua memoria. Poi velocemente il nastro si avvolge fino a riportare il lettore ad un altro punto saliente del racconto. Come quella volta che combattendo in Spagna, nonostante i dissapori con i comunisti, l’amicizia e il sorriso di un grande uomo restituiscono un senso ai sacrifici compiuti in nome della giustizia, e della libertà: In poche ore rioccupammo varie alture ai fianchi ed andammo anche oltre le posizioni perdute. Alla notte mi accorsi che comandavo tutto un settore presidiato da oltre duemila uomini; mi accorsi che il gruppo italiano si era trasformato in un piccolo stato maggiore; mi accorsi che avevo alle mie dipendenze dei reparti dell’esercito regolare spagnolo, con relativi ufficiali e numerose centurie di volontari spagnoli con i relativi capicenturia. La notizia della strepitosa vittoria del 5° scaglione era intanto arrivata anche alla colonna italiana, distante da lì una trentina chilometri. Venne Carlo Rosselli a stringermi cordialmente la mano e mi disse, sorridendo: “Bravo Colonnello!”. Il buono e caldo sorriso di Carlo Rosselli, sulle montagne di Aragona, fu una delle poche grandi soddisfazioni avute durante tutta la guerra di Spagna.
Giornale di bordo
“Ho tante volte pensato che sarebbe stato piacevole poter rileggere, raccolti in una specie di Giornale di bordo, i fatti più significativi della vita mia e della mia famiglia. L’impresa è naturalmente molto ardua, come tutte quelle a carattere di continuità, ma la renderò più semplice prendendo nota dei singoli avvenimenti, più o meno significativi, senza eccessivo formalismo ed escludendo di proposito ogni osservazione di carattere sentimentale ed in genere ogni pensiero troppo soggettivo, ad evitare che questo “Giornale” venga ad acquistare la fisionomia di quei diari i quali, per essere troppo rimpinzati dei pensieri e dei sentimenti di ogni giorno, data la mutevolezza dell’animo umano, non vengono mai riletti con piacere, a distanza anche di poco tempo. […]”
Trentaquattro anni di vita (1906-1940) ricostruiti nel dettaglio, grazie a una predisposizione innata verso la scrittura di sé che ha portato Marcello Rodinò di Miglione a disseminare agende di appunti e fatti, ancor prima di concepire sistematicamente la scrittura di un diario. Una pratica che Marcello avvia in un momento delicato della storia italiana, poco più di un mese dopo l’ingresso nella Seconda guerra mondiale. Da quel giorno e per i successivi 48 anni (1940-1988) non rinuncerà più a raccontare in prima persona la sua traiettoria personale e quella della sua famiglia, di antica nobiltà napoletana, legata in modo profondo alle vicende del Paese. Il padre Giulio, eminente figura di uomo politico, è tra i fondatori con Don Sturzo del Partito Popolare Italiano. Tra le molteplici pagine che raccontano le intersezioni tra la famiglia e la storia, spicca nelle memorie di Marcello il ricordo dell’incontro tra il padre e il Maresciallo Badoglio, un mese dopo l’insurrezione di Napoli. Di grande interesse anche la cronaca del giorno della Liberazione di Napoli dall’occupazione dei tedeschi, che Marcello racconta in presa diretta grazie alle informazioni che raccoglie e a quello che riesce a vedere con i propri occhi. Nel dopoguerra Marcello è destinato a ricoprire incarichi manageriali di primaria importanza. Già dalla metà degli anni ‘30, favorito da una doppia laura conseguita in ingegneria e in giurisprudenza, aveva mosso i primi passi nell’attività lavorativa alla Società Meridionale di Elettricità, distinguendosi per capacità e rigore. È l’inizio di una carriera brillantissima che lo porterà nel 1956, e fino al 1964, a ricoprire l’incarico di Amministratore Delegato della Rai proprio negli anni della nascita, e della consacrazione, del mezzo televisivo. Dopo l’esperienza al vertice dell’emittente pubblica, sarà ancora alla guida di realtà di primo piano dell’industria pubblica e privata italiana e non solo: dall’Unione europea di radiodiffusione a Telespazio, fino all’Assonime
Açailandia
“Amsterdam 10.9.82 ore 16
Caro Sante;
in cammino per il mondo. Dove mi porterà il Signore? Impossibile scoprire l’ampiezza dell’Incarnazione di Cristo se non si esce da se stessi. Viaggio inevitabile per uscire dalla pelle delle patrie, dalla razza del primo mondo. L’aeroporto è una cappella di transito dove i popoli vanno e vengono. Tutti figli di Dio. Come vivere il Cristo/popolo se non ci si mette in circolazione nelle arterie dell’umanità? Scoprire che Lui ama i popoli sotto forma di popoli. […]”
È il 1982 quando Fausto Marinetti raggiunge Açailandia, nel nordest del Brasile. Sacerdote cappuccino dal 1968, in Italia ha conosciuto la miseria degli ultimi e vissuto per anni a Nomadelfia, la comunità cattolica fondata da Don Zeno, insediata nelle campagne di Grosseto dal 1953 e ispirata ai valori della fraternità evangelica e della responsabilità condivisa. L’esperienza a “Nfia” resterà centrale nella vita di Fausto, anche quando si trasferirà in Sud America, a contatto con la dilagante miseria e lo sfruttamento della popolazione locale. Da Açailandia, dallo stato del Maranhão e dalle numerose altre località brasiliane che visita, scrive centinaia di lettere a Sante Saragoni, amico e membro della comunità grossetana. Dalla prima all’ultima, le missive sono dominate dalla progressiva scoperta della “vera” missione da compiere tra i “veri” mali del mondo, dei limiti della Chiesa e della stessa esperienza di Nomadelfia. Açailandia, 4.10.82 Caro Sante; le sorprese non finiscono mai. E la peggiore è la mentalità del missionario. Se non fosse per il popolo me ne sarei già andato. Se non si predica con l’esempio, a che servono le chiacchiere? Abbiamo al nostro servizio due serve. In casa loro non c’è acqua né luce né gabinetto. Noi abbiamo frigorifero, televisione, libri, conto in banca. C’è chi mangia carne una volta alla settimana e noi tutti i giorni. Devo dire due parole in chiesa. Ed io sto male, perché fino a quando staremo troppo bene non avremo il diritto di dire una sola parola.
In dialogo con la morte
“21 Agosto 1917
Carissimi
Dopo un viaggio delizioso per la comodità e amaro per i rimpianti giungemmo col treno a Bassano. Mi affligge il pensiero costante di rimanere lontano da voi – se allorquando ero vicino a voi mi fossi allontanato meno… forse ora avrei meno rammarico! Spero di essere perdonato.
So che vicino a me si trova il nostro cugino Paolo Falciola, più insù. Iscriverò più lungo appena al mio posto. Voi a Canneto riposate e pensate ogni tanto al vostro Franco che vi vuole tanto bene. Saluti e bacioni a tutti: è innato il desiderio di pensare ai fatti che hanno avuto tanto importanza sul nostro destino. Vi abbraccio intanto, vostro
FRANCO […]”
Lirismo e morte. Le lettere spedite dall’artigliere Franco Bermond dall’Altipiano di Asiago a casa, dall’agosto al dicembre 1917, prima di morire colpito da schegge di granata, sono sublimi nello stile ed esemplari nei contenuti. Distillato di epica e orrore della Prima guerra mondiale, Franco non manca mai di esprimere l’amore per i suoi cari, che cerca sempre di rassicurare sulle sue condizioni.
Il sommo tema e indicibile, Franco lo indaga e risponde illuminante. La morte? Una preoccupazione o una pallottola che tutti ritengono colpisca solo i vicini, e che poi, quando ci si è formato con orgoglio la convinzione della invulnerabilità, colpisce anche l’uno dei tutti. Ad ogni modo la si prende di fronte; e non fa paura. Molti pregustano con spasimo la sensazione della morte; ciò crea il dolore voluto dall’uomo, perché, se la morte dà un’impressione la dà certo troppo tardi. E poi, la nostra condizione soggettiva le muta sovente aspetto. Ora, per esempio, sono ilare e la sfiderei serenamente; qualche volta, col ricordo che rimpiange nel cuore e l’infelicità nell’anima s’invoca; in un momento di debolezza la si teme; e nei lunghi periodi di saggezza la si attende senza meraviglia.
Due ore dopo aver scritto questa lettera, Franco è stato colpito a morte.
Fiat voluntas tua
“6 Luglio 1947
Domenica Oggi è stata una giornata avventurosa. Da tanto tempo avevo l’intenzione di andare a S. Pietro da un mio amico a prendere alcuni giornalini: ed intanto volevo approfittare di andare a fare il bagno nella Tignana: sono partito da casa alle 9,10 ed avevo intenzione di andare subito alla Messa. Giunto a Sansepolcro erano le 9,30 e la messa andò in aria. Continuo la strada verso S. Pietro cercando per strada un torrente che avesse abbastanza acqua per pescare e che si chiamasse Tignana. A un mezzo Km. da Sansepolcro trovo un fiumiciattolo. Un filo di acqua argentea si insinuava tra i ciottoli ed ogni tanto formava qualche gorghetto che non mi sembrava adatto a pescare né a bagnarsi. Continuo la strada fino a S. Pietro. Saranno state le dieci e incominciava a fare caldo. Cicaleggio incessante e monotono mi accompagnava. Giungo alla casa cantoniera dove abitava questo amico. Busso, suono: nessuno risponde nessuno apre. Non c’è niente da fare. […]“
Un ragazzo sensibile e pieno di passioni, capace di alternare la leggerezza di vivere di un adolescente, attratto dalle amicizie e dall’attività sportiva, con la profondità d’animo e la spiritualità di un uomo maturo. La vocazione religiosa, l’attivismo nell’Azione Cattolica, il volontariato con i bambini, l’amore sterminato per lo studio e la conoscenza. Quando comincia a scrivere il suo diario, a 15 anni, Gherardo Giorni racconta la quotidianità di un giovane normale e speciale allo stesso tempo. Nasce a Pistrino di Citerna, in provincia di Perugia, da una famiglia di coltivatori, frequenta il Liceo scientifico a Sansepolcro in provincia di Arezzo e si sposta a Siena per gli studi universitari. È iscritto a medicina, trascorre le giornate sui libri e dedica ogni energia all’apprendimento. Fin quando, appena ventenne, un grave incidente non mette a repentaglio tutti i suoi progetti. 14-1-52 Molte cose sono passate dall’ultimo giorno che ho scritto il mio diario. Sono 33 giorni che sono ricoverato all’ospedale Civile di Siena. Dormo nel lettino della sala dell’Operati, lettino N 302. Ferita all’occhio sinistro da un piumino. Fiat voluntas tua. Perderà, senza mai riuscire a riacquistarla, la vista da un occhio e dovrà sottoporsi a lunghi cicli di cure e ricoveri per scongiurare la cecità. Un’esistenza imperniata sull’abitudine di leggere e scrivere per molte ore al giorno viene sconvolta improvvisamente. Il percorso universitario rallenta, le preoccupazioni per i costi che la famiglia deve sostenere per mantenerlo al collegio si fanno pressanti, ma Gherardo riesce a resistere. Con forza d’animo e facendo sempre leva sulla fede, che vacilla nei momenti difficili ma resta un punto di riferimento, trova un nuovo equilibrio che gli consente di non compromettere la salute, continuare gli studi fino a conseguire la laurea, trovare l’amore e costruire una famiglia.
Effetto 8 settembre
“2-10-943
Emilio mio. Perché questo bisogno di scrivere…non lo so. Io spero ancora nel tuo prossimo ritorno, ma se per caso tu dovessi ritardare molto, non so cosa accadrà di me e perciò forse è bene che io metta su carta tutte le mie sofferenze di questi giorni acciocché tu sappia. Ti ho sempre detto che il Signore non ti aveva mai fatto andare in guerra perché sapeva che questo dolore non poteva da me essere sopportato, giacché superiore alle mie forze. Ora è accaduto questo disastro e se non si accomoderà subito, io non so se potrò resistere, malgrado la buona volontà di farmi forza per te e per le nostre creature.[…]”
L’armistizio dell’8 settembre 1943, gli effetti sulla vita delle famiglie italiane. Una storia emblematica raccontata attraverso un epistolario scritto a sei mani. Quelle di Emilio Eventi, civile che per timore dei rastrellamenti si consegna ai tedeschi a Boscotrecase, Napoli, e viene deportato in Germania ai lavori forzati. Quelle della moglie Pia e del padre di Emilio, Edgardo, residente a Genova. Pia, perse le tracce del marito, scrive lettere pur sapendo che non arriveranno mai al destinatario. Sfoga così il dolore per le piccole difficoltà e le immense tragedie che deve affrontare da sola. Come la perdita di un figlio appena partorito. 28.11.1943 Emilio mio. Scriverò un’altra pagina nera in questo quaderno e voglia Iddio sia l’ultima. Il bambino mentre stava tanto bellino ha fatto un cambiamento improvviso. Doveva avere un difetto al cuore perché in alcuni punti del corpo era un po’ blu. Ieri sera zitto zitto è andato via da quest’odiosa terra. Col passare del tempo Emilio riesce ad attivare sporadiche comunicazioni con il padre, che fa da tramite con Pia e da filtro sulle precarie condizioni di vita e di salute del marito. I due riusciranno a riunirsi solo nell’agosto del 1945.
La giovane prigioniera greca
“Ferravm. 23-3-1942 Lunedì
Dall’inizio della guerra ho sempre voluto scrivere il diario giornaliero, ma o per pigrizia o per lavoro non ho mai potuto incominciarlo. L’avevo incominciato il giorno della nostra partenza da Tripoli (13 gennaio, martedì ore 16) giorno fatidico che non dimenticherò mai in vita mia. Abbiamo fatto un viaggio pessimo come comodità e bello come mare. L’unico inconveniente piuttosto spaventoso è stato l’incontro con tre grosse mine. Tutto il tragitto l’abbiamo fatto con le cinture di salvataggio addosso. […]”
Una pagina di storia nascosta, di violenza non acuta ma profonda, di privazione della libertà, della normalità. Delle radici. È quella che racconta nei suoi diari Olga Mefalopulos, una ragazza di 16 anni nel 1942, nata a Tripoli in Libia in una famiglia di origine greca. La Libia, colonia italiana che nel 1942 è terreno di conquista delle truppe Alleate in azione nel Nord Africa. La Grecia, che nel 1942 è sotto l’occupazione italiana. Due fattori che determinano la scelta del regime fascista di internare, in Italia, i civili greci residenti sul suolo libico. In 120 vengono destinati al più grande campo di concentramento costruito nella Penisola, quello di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza. La reclusione provoca sofferenze, ma Olga riesce a costruirsi una quotidianità apparentemente normale, fatta di amicizie e amori, di giochi e vita familiare. Altrettanto avviene nelle successive località dove viene trasferita con la famiglia, sempre sotto sorveglianza, a Chieti e Guardiagrele in Abruzzo. Fino alla svolta dell’8 settembre 1943, che Olga accoglie con tripudio. Son state dettate le clausole che determinano l’armistizio: Liberazione dei prigionieri e degli internati! Siamo liberi! Non più controllati, non più comandati, non più ostacolati ma liberi, liberi, liberi! Come per tutta l’Italia, la vera libertà arriverà molto tempo dopo, non prima di aver vissuto i bombardamenti alleati, e lo sfollamento verso le montagne abruzzesi.
Libro antico
“Questo libro di memorie fu ritratto da me dai libri antichi, e compilato nell’anno 1820. In seguito si è accresciuto di altre posteriori notizie, e rifatto anche da me infrascritto in questo anno 1832.
Esso contiene
In primo=L’Albero di famiglia=Folio…2
In secondo: Tutti i squarci del libro antico di memoria riuniti-Folio…12
In terzo=Le notizie della mia vita, tutte le circostanze particolari di diversi contratti, il prezzo e la spesa dei medesimi, ed il metodo tenuto ne pagamenti = Folio…23=60 […]“
Libro antico e diario di famiglia quello che Luigi Tramontano, nato a Pagani in provincia di Salerno nel 1793 e deceduto nel 1868, inizia a integrare e redigere nel1820. Tradizione radicata tra i ceti benestanti dell’epoca per annotare nascite, morti, matrimoni, compravendite e acquisizioni di beni del casato. E si scopre che in una famiglia del ‘700, come quella da cui proviene Luigi, su nove figli di cui sei femmine, è celebrato un solo matrimonio, per preservare il patrimonio. Marito e padre, ricopre importanti ruoli pubblici, diventando anche sindaco del proprio paese. Malattie e gravi lutti – è orfano di madre e perde prematuramente alcuni dei suoi figli – funestano la sua esistenza fin dagli anni dell’infanzia.
Al timone della Vespucci
“Ricordi della Campagna
che io feci a bordo del
R. Incrociatore “Amerigo Vespucci”
e della R. Cannoniera “Andrea Provana”
nei mari dell’America meridionale. Anni 1889-90-91
Perché leggendo queste pagine imparino un giorno i miei figli a sostenere con pazienza e coraggio l’ardue lotte della vita, a cui il mare ne è il simbolo; e sopra tutto ricordino che anche nelle spiagge più remote del mondo, mai venga meno l’affetto per i genitori, per la patria.
Ugo Semini Cucciatti Cortona 25 giugno 1900 […]“
Ugo Sernini Cucciatti nasce nel 1869 a Cortona, in provincia di Arezzo, da famiglia nobile. Nel 1889 presta servizio militare nella Regia Marina, timoniere sulla nave scuola Amerigo Vespucci, antenata dell’attuale. E parte per un viaggio indimenticabile. Dopo aver toccato la Grecia e l’Egitto, fa rotta verso il Sud America. Brasile, Uruguay, Argentina, Terra del Fuoco e, dopo aver varcato lo Stretto di Magellano, Cile e Perù. Scruta, osserva e commenta nelle lettere che scrive alla madre. Fa scoperte sorprendenti. Repubblica Argentina.
“Mia adoratissima Agnese”
“Signorina Agnese,
da diverso tempo che volevo esprimergli l’amore che nutrivo verso di lei, ma stando in lontana campagna, non ò avuto mai l’occasione di poter manifestare le mie idee, perciò colgo adesso il momento essendo stabilito in città, dicendole che dal primo dì che ebbi la fortuna di conoscerla il mio cuore ha palpitato sempre per lei di un amore senza fine, e non avrà mai tregua senza una sua decisa e positiva risposta, e ricevendo un bel si dalla sua cara ed adorabile bocca, farà l’uomo più felice che esista in questo mondo. Credo che come accetterà questa mia breve lettera accetterà anche l’amore che porto in cuore il più sincero, affettuoso e leale. La prego caldamente di farmi una pronta risposta e speranzoso di un esito favorevole con stima la riverisco, suo dev.mo
Bufacchi Alessandro via Montebello n.1.D ( osteria)
Mi raccomando che sia segreta di questa mia lettera, però se lo vuole dire a sua madre glie io dica pure e a nessun altro […]”
È l’intensa storia d’amore tra Agnese e Alessandro. Dopo anni di fidanzamento segnati dal rispetto e dal desiderio di congiungersi in matrimonio, la gestione comune di un’attività commerciale unisce ancora di più due ragazzi nati e cresciuti nella provincia di Rieti, sul finire dell’Ottocento. Lo scoppio della Prima guerra mondiale costringe Alessandro a partire per il fronte, mentre Agnese deve gestire da sola il negozio e accudire la famiglia, resa più numerosa dalla nascita di due figli. Le lettere si trasformano nell’unico strumento per alimentare il rapporto. Tra i consigli su come superare la crisi economica, la preoccupazione per la salute dei propri cari e il costante pensiero alla casa come spazio fisico e focolare domestico, Alessandro non smette mai di coltivare la prospettiva del ritorno. Una speranza resa dolce dall’intima certezza di ritrovare affetti ancor più forti, irrobustiti dalle prove superate, dal dolore per la lontananza e dalle privazioni che si sopportano tanto al fronte, quanto al fronte interno. Ogni sentimento passa attraverso la scrittura, attraverso il solo mezzo che consente ad Agnese e Alessandro di continuare a dirigersi verso un obiettivo comune: speriamo di essere uniti tra poco e per sempre.
“Inviandovi questi pochi righi”
“Postumia li 1.5.940
Carissimi anche in questoggi vengo a inviarvi le mie notizie come per il presente mi trovo in perfettima salute e così spero che sia di voi tutti quindi in questi giorni vi ò inviato diverse cartoline ma spero che vi siano giunte dove vi ò dato le mie notizie ogni giorno donque riguardo al mio andamento siamo sempre nel solito posto ansi come ci avevo detto che siamo ancora fermi causa della neve ormai sono tre giorni che nevica ma oggi pare che vada a smettere ogni tanto smette e poi ricomincia ma io dico che in questa notte smette del tutto sicche si doveva rientrare il giorno tre o il quattro ma invece bisogna aspettare che rimbertempisca e che vada via la neve e quando la stagione lo permette allora torneremo ma per il momento bisogna stare qui […]“
“Inviandovi questi pochi righi…”. Con questa formula, e con altre simili, si aprono alcune decine di lettere spedite dal caporal maggiore Gino Mancini alla moglie, e alla famiglia, durante la Seconda guerra mondiale. Fino al luglio del 1942 Gino, nato a Vinci in provincia di Firenze, scrive principalmente da Cormons, in Friuli, dove è di stanza in caserma in attesa di una chiamata per il fronte. Fanno tenerezza alcune riflessioni che in questo periodo condivide con i propri cari, che hanno al centro la chiamata alle armi, posta sul piatto della bilancia con il bene più prezioso della vita, la salute. Mancini passa le visite mediche. E parte per la Russia. Ci anno mandato quà, anche noi quando c’è il bisogno di soddisfare al nostro compito assegnato bisogna combattere. Combattere e morire, perché Gino non tornerà mai a casa. Dal 12 gennaio 1943 risulta disperso sul fronte russo.
Il giornale di tutti
“IL GIORNALE DI TUTTI
INTERVISTE PIU’ (+) O MENO (-) CELEBRI
TUTTI POSSONO COLLABORARE !!!! NB SCRITTI, DISEGNI, FOTOGRAFIE, ANCHE SE NON PUBBLICATI NON VENGONO RESTITUITI.
LA DIREZIONE
NON SI ACCETTANO ARTICOLI CHE POSSANO OFFENDERE O COMUNQUE OLTRAGGIARE LA DIGNITA’ DEI LETTORI
LA DIREZIONE
DIRETTORI IRRESPONSABILI: N. N.
Ma lii el gà la tesera?
La sapete la storia di Ulisse che voleva a tutti costi salire davanti dicendo che era un generale greco! Pensate: lo picchiarono, poveretto, mentre il manovratore pensava: “Quanti scemi de guera che ghè a sto mund!”
Firmato GUSTAVINO […]“
Dalle riflessioni sull’amicizia e sull’amore al dramma dell’8 settembre 1943 e della scelta più difficile da prendere. È l’evoluzione che caratterizza il diario di Giancarlo Iliprandi, liceale milanese che nel 1942 comincia a riempire di considerazioni personali un album da disegno scolastico, arricchendolo di vignette e di disegni che contribuiscono a rendere unica la testimonianza nella forma come nei contenuti. Quelle pagine diventano il luogo dove trasferire le suggestioni sulla vita scolastica, dove “scarabocchiare” i sentimenti che fioriscono per le ragazze. Un documento figurativo che racchiude il significato di un romanzo di formazione. Il contesto storico, pur rilevante negli anni in cui l’Italia partecipa alla Seconda guerra mondiale, è totalmente assente da queste riflessioni fin quando l’armistizio non irrompe tragicamente anche nella vita di Giancarlo. Appena maggiorenne, è posto di fronte al bivio tra l’arruolamento nell’esercito della Repubblica di Salò e la diserzione. Giancarlo vive un periodo di grandi paure e di molta incoscienza. Poi i primi contatti con altri clandestini, in seguito con quelli della Resistenza, quella vera
Cara Uranina
“Lì 6 febbraio mare vicino a S.Vincenzo (1889)
Mio caro Ugo
Appena telegrafatoti si montò a bordo e ancora non ci siamo più fermati, sono ormai 11 giorni che viaggiamo. Io sono qui comandante e tutore di 287 persone che smonteranno con me a Rio Janeiro e di lì andremo alla nostra destinazione che è distante circa 5 ore di ferrovia in un posto chiamato Valencia, aria buonissima e sana; ti darò in seguito preciso indirizzo. […]“
Poche ma intense lettere, in tutto 24, raccontano una storia grande come la distanza che c’è tra l’Italia e il Brasile: Diletto, agronomo, rimane vedovo nel 1889 e subito dopo essersi risposato decide di emigrare verso il Sud America con la seconda moglie, Albina. La prima destinazione è Esteves, alla quale farà seguito Vista Alegre: l’obiettivo è sempre quello di andare in cerca di fortuna mentre la speranza è riuscire a ricongiungere la famiglia con l’arrivo della figlia Urania, nata dal primo matrimonio, rimasta in Toscana a Figline Valdarno e affidata temporaneamente al nonno materno. Le lettere raccontano
la nascita di questo progetto destinato a svanire, nonostante Diletto ce la metta tutta: colpisce infatti la testimonianza di un uomo laborioso e pieno di risorse, ben accolto e stimato dalla comunità locale ma che, pur alternando successi e fallimenti professionali, morirà prematuramente proprio a causa del duro lavoro.
Ai tempi dell’Ancien Régime
“Memorie che servono
a dilucidare i fatti importanti della vita
Domestica
di Ciuseppe Co . Da Prato e della di lui famiglia
Introduzione
Quantunque la mia vita non contenga cose di rimarco pure penso di scrivere la serie per memoria della mia famiglia […]“
Giuseppe da Prato nasce a Verona, nel 1757, in una famiglia nobile. All’età di undici anni, come vuole la tradizione, viene impiegato come paggio presso la corte di Giuseppe d’Assia-Darmstadt, vescovo di Augusta, salvo passare, alla morte di questi, presso la corte di Clemente Venceslao di Sassonia, vescovo ed elettore di Treviri, che lo invierà al seminario di Dillingen per completare la sua educazione. Impossibilitato a intraprendere la carriera militare in quanto unico figlio maschio della famiglia, chiederà e otterrà dal vescovo “l’emancipazione”. Il ritorno in Italia nel 1776 sarà però doloroso, soprattutto perché segna il definitivo allontanamento da Giosepha, figlia di un barone di Augusta,
un amore tanto grande quanto impossibile da raggiungere.
Quando a Bruxelles l’Ue era un miraggio
“La conflagrazione Europea
L’Europa in Guerra
La più grande catastrofe que mente umana può immaginarsi sta per compiersi. La guerra, questo grande flagello, passerà attraverso i popoli d’Europa seminando la strage, la fame, la miseria oltre al sangue di tante giovani e mature esistenze. La mente dell’uomo appena può rendersi conto della grande carneficina che può produrre una guerra moderna con mezzi che si posseggono al secolo XX. Fino a che un tale cataclisma resta localizzato fra due popoli le conseguenze anch’esse si localizzeranno riducendo in parte le proporzioni e i risultati di esse ma quando questa. Nasce fra 2 pù popoli allora le conseguenze sono universali e terribili. […]“
Chissà cosa avrebbe pensato l’anonimo giovane autore di questo diario se gli avessero detto che la Bruxelles in cui viveva sarebbe diventata un giorno il cuore pulsante dell’Europa unita. Di certo tra il 1 agosto e il 18 settembre del 1914, nei giorni in cui riempie la pagine del proprio taccuino, quel tipo di prospettiva non doveva apparire neppure un miraggio: dalla capitale del Belgio in cui è emigrato con il padre per motivi di lavoro articola con cadenza quotidiana il racconto dell’escalation bellica della Prima guerra mondiale, l’occupazione tedesca e la reazione della popolazione locale rimasta sgomenta di fronte all’aggressione subita. L’orecchio è teso verso le notizie che giungono dall’Italia, verso la probabile entrata in guerra, ma le informazioni che riesce a raccogliere risultano discordanti e non lo aiutano a risolvere i dubbi sul da farsi. Tornare a casa per ricongiungersi alla famiglia o restare in Belgio sperando di evitare l’arruolamento? Nell’incertezza riesce comunque a farsi riformare alla visita della leva militare presso il Consolato, anche se l’ultima annotazione con cui si chiude il diario riporta la decisione di tentare il rimpatrio.
Quando è nata l’Italia, io c’ero
“Mie Carissime Memorie
Entrai nel Collegio degli Angeli in Verona l’anno 1825 il giorno 25 di ottobre nell’età di anni 8. […] Era tanto il desiderio d’entrare in Collegio, essendovi mia Sorella Marietta che non volli attendere il dopo pranzo. […]”
Uno spaccato della vita aristocratica ottocentesca: quasi settant’anni di ricordi articolati in un diario-memoria che Teresa, borghese di nascita, elabora scandendo gli eventi della sua vita che si sono succeduti tra il 1826 e il 1891: dall’esperienza di educanda in collegio fino alla morte del marito, quando lo scritto evolve in un testamento spirituale rivolto ai cinque figli e ai nipoti. L’ingresso nell’aristocrazia veronese è conseguenza del matrimonio con il conte Federico Giuliari: da quell’evento in poi le cronache di vita familiare troveranno ampio spazio nei resoconti di Teresa. Sullo sfondo delle stesse pagine si stagliano però anche i racconti delle vicende che hanno segnato l’Unità d’Italia, che vedranno l’autrice inizialmente fedele agli Asburgo e poi, soprattutto per le imprese del figlio primogenito garibaldino, schierata patriotticamente a sostegno dei Savoia. Il pubblico e il privato si intrecciano mentre spiccano i racconti di eventi storici straordinari, quali le visite degli imperatori austriaci, la seconda guerra d’Indipendenza, la morte di Cavour e successivamente di Vittorio Emanuele II.
Anche morire non mi rincresce
“Il giorno 3 marzo 1917 partii per presentarmi al distretto; giornata molto brutta, benché l’inverno fosse al termine ma la neve si faceva beffe di noi, io più triste che mai col cuore angoscioso e le lacrime agli occhi, parevo quasi fuori di me nel saper che fra pochi istanti avrei dovuto lasciare i miei genitori, che già privi erano di uno, e per di piu era nelle mani del barbaro nemico; lascio immaginare il dolore che regnava in famiglia nel dover allontanarmi anchio e lasciare i genitori vecchi fra gli stenti del lavoro. Cercavo farmi coraggio, e farlo agli altri colla speranza che le cose potessero risolversi sempre in bene. Giunta l’ora della partenza fu come un fulmine il pianto in tutta la famiglia e talmente forte che il cuore mi balzava come una palla elastica facendomi privo del coraggio di abbracciare la famiglia […]”
Un anno di guerra vissuto e raccontato da un giovane contadino piemontese, ultimo di sei figli, costretto ad abbandonare, nella primavera del 1917, l’amata famiglia. Carlo, inviato sul fronte in Veneto, in Trentino e in Friuli, si vede obbligato a partecipare a una guerra della quale non comprende il significato, la cui portata tragica è per lui inimmaginabile. Si sente inadeguato, fuori posto, ha paura, è costretto, suo malgrado, ad accettare il grado di Caporale di Fanteria.
Affronta la dura vita di trincea, vede morire intorno a sé i compagni colpiti dal fuoco austriaco, è sbandato nei drammatici giorni della rotta di Caporetto, quando passivamente segue la massa ormai senza controllo. Grazie a un’inattesa licenza premio, può andare a casa per dieci giorni e riabbracciare la famiglia; il ritorno al reggimento, pur nella sua durezza, è quasi un naturale evolversi degli eventi: pazienza ora sono stato in licenza, anche morire non mi rincresce.
Il cuore taccia
“2 settembre 1938
Leo telefona da Viserba – ore 14
sospeso dall’insegnamento…
il razzismo sulle orme del nazismo…
Col 15 ottobre via dal Gozzadini…
Col 15 dicembre pensionato dispensato
Commosso commiato del Rettore Ghigi e del Direttore Borsari…
Il preside non si fa vivo
Le leggi raziali…
I bambini esclusi dalle scuole ariane…
La domanda di discriminazione caldamente appoggiata dalla Prefettura parte.
Finisce il 1938 […]”
Il 2 settembre del 1938, Maurizio Pincherle, ordinario di Clinica pediatrica all’Università di Bologna, inizia ad annotare in un diario gli avvenimenti della sua famiglia. Il figlio Leo, una delle menti migliori della Fisica del tempo, viene sospeso dall’insegnamento e di lì a poco lui stesso è espulso dall’Albo dei medici e costretto a lasciare la cattedra a seguito dell’entrata in vigore della legislazione antisemita per “la difesa della razza”. Alla privazione di qualsiasi diritto civile, fa eco la minaccia di rappresaglie e la paura di essere deportati o trucidati. Nel settembre del ’43, la famiglia Pincherle abbandona Bologna, inizia un periodo di fuga scandito dalla ricerca affannosa di rifugi che diventano sempre più precari, dal pericolo di girare con documenti falsi, dal timore delle spiate, dalla necessità di procurarsi adeguati mezzi di sostentamento, mentre il figlio Mario si unisce ai partigiani sui monti del Sassoferrato. Nell’agosto ’45 il rientro a Bologna, ma dovrà attendere altri quattro mesi per essere riammesso alla professione medica, con un ruolo marginale in quella che era stata la sua clinica, privato dei suoi assistenti e della sua scuola.
Il soffio ardente della passione
“Firenze 20 gennaio 1898
Carissima Anitina
Ecco che la tua mammina assieme al tuo caro babbo ti inviamo questa letterina per darti nostre notizie, per ripeterti che ti vogliamo sempre bene e che mai un momento ti dimentichiamo. Sii buona mia cara, sii obbediente, e rispettosa verso la buona sig.ra Italia, e verso tutti, e alla nostra venuta resterai contenta, sia per le carezze che mamma e babbo ti faranno, sia per qualche piccolo ricordo che ti porteremo. Anita nostra mi raccomando di essere buona e gentile verso i tuoi fratellini, cerca di fare di tutto perché essi pure siano buoni e obbedienti verso la buona e cara famiglia Caraceni. Siamo arrivati a Firenze sabato sera, non ti descrivo la gioia provata dalla nonna Emilia al rivederci, piangeva dalla consolazione, è rimasta dispiacente nel non poter rivedere la sua Anita, m’incarica di farti tanti saluti e mandarti tanti baci. […]”
Aperto dalle lettere che le inviano i genitori, l’epistolario tra Anita e Ugo testimonia quarant’anni di un legame affettivo che non conosce incertezze. Lui, docente di filosofia alla Sapienza di Roma e bibliotecario della Camera dei Deputati, è spesso lontano per conferenze e convegni; lei, di salute più fragile, non lo segue fisicamente ma intreccia con il coniuge una insolita quanto intensa liason epistolare: “Mio Ugo, sono finalmente con la tua lunghissima che ha portato nel mio romitaggio il soffio ardente della passione”. In un susseguirsi di impegni lavorativi, di interesse per i figli, la moglie e gli amici, lui intraprende un originale tour attraverso l’Italia e l’Europa. Le lettere delineano lo spaccato di vita di una famiglia che, fino all’inizio degli anni Sessanta, è l’espressione forte di sentimenti non scalfiti dal tempo.
Gentile amica
“Torino, 10.12.76.
Gentile amica
Anzitutto ringrazio te e la tua famiglia per la cordiale accoglienza che ci avete prodigata e per la calda familiarità con la quale ci avete espresso la vostra amicizia. Rimarrà fra i miei ricordi più grati una conversazione con simpatici amici, presso il fuoco tranquillo di un caminetto toscano […]”
Quasi un diario epistolare rivolto all’amica Ombretta. A Pieve Santo Stefano, dove lei vive, giungono lettere da varie parti del mondo che rendicontano l’impegno internazionale a favore delle popolazioni vittime di conflitto e poi in Vietnam per la ricostruzione di villaggi. In una lunga lettera dal Sudan, scritta nel 1988, Sisto è inviato da un’organizzazione per gli aiuti internazionali e studia i sistemi per far giungere i soccorsi alle popolazioni duramente colpite dalla guerra, mettendo a repentaglio la propria vita, finendo in carcere e rischiando la pena di morte. Dopo molti anni, colpito da una grave malattia che gli rende impossibile viaggiare, si dedica alla lettura, alla meditazione e alla coltivazione dei tanti ricordi, fra i quali emerge il racconto di come è riuscito a recuperare l’altipiano di My Son in Vietnam, ricco di templi buddisti quasi dimenticati, ora riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.
Partimmo come tante pecore sbalordite
“Dopo parecchi anni che anelavo di farmi un viaggio in america, come tanti del mio paese fanno esportando cola drapperia per uomo e facendo tanti guadagni, così il 1° gennaio 1908 mediante accordi con mio fratello mi recai in Napoli, facemmo gli assortimenti relativi. Dopo preparato ogni cosa ritornai a casa (Castelvetrano) per ripartire definitivamente. Infatti il giorno della partenza presto arrivò 23 marzo 1908 giorno di lunedì. Ahi che non mi avrei mai deciso… Dopo una notte di pianto dovetti rassegnarmi al grande sacrificio, distaccarmi dai miei che dire? Col cuore squarciato, mezzo istupidito e colle lagrime agli occhi baciai e ribaciai alle mie due femminucce (Carmelina e Franceschina) che poverine dormivano il sogno dell’innocenti ignare di tutto quello che accadeva, scesi al primo piano per licenziarmi dalla mia cara compagna la quale anch’essa con pianto dirotto mi abbracciò tenendomi stretto […]”
Il diario incompiuto del viaggio nell’America del Sud all’inizio del Novecento di un commerciante di tessuti napoletano. Insieme con alcuni parenti e connazionali emigra in cerca di fortuna, con l’intento di vendere vestiti fatti arrivare dall’Italia. Attraverso l’Argentina, il Cile, il Perù e l’Ecuador con muli, cavalli, treno e nave, osservando la gente del posto e le sue antiche usanze tradizionali.
Appunti di viaggio
“7.11.1914
Miei cari.
Se volessi descrivervi, con estesi particolari, tutto ciò che à toccato la mia impressione, qui a Bombay, avrei un mondo di cose da raccontare che non finirei più; mi limiterò, allora, a mandarvi degli appunti, dai quali, la vostra intelligenza trarrà lo svolgimento.
Bombay si distende sopra una grande e soleggiata, spianata, in riva al mare.
Il porto è grande ed è importante sono numerose le navi che quotidianamente entrano ed escono, migliaia di persone sono occupate al carico e allo scarico dei vapori. Gli abitanti di Bombay appartengono a tutte le razze, tranne la caucasica, dei bianchi ne o visti tanti ma però tutti di passaggio, a quanto credo non ve ne dimorano […]”
Un marinaio toscano scrive a casa da bordo di una nave che naviga sostando in India e in Sud Africa. Visita alcune città e ne descrive i luoghi, le persone, gli usi così diversi da quelli europei.
Quando la corrispondenza finisce è già iniziata la prima guerra mondiale e lui commenta le alleanze dell’Italia.
Witta e avventure della mia Militare Disciplina
“VITTA, e AVVENTURE
Legerete amici miei , la vita della mia cariera militare , quanti avenimenti successi in diverse parti del mondo per mare per terra ecetera. Quante volte, sono andato a rischio di perdere la vitta , sia nelle burasche in mare, e anche in terra contro i Monti Negrini. Finalmente, vi dirò una brevità , perché s’io volessi descrivervi il tutto ci vorrebbe tropa carta, nonostante mi compatirete del mio poco ingegno , e del mio indebolitilo carattere. Ebbene nel seguente mio libreto udirete di successi a mè aventuratamente suceduti nella mia cariera militare, e quando lavrette udito , finalmente agli miei ultimi anni mi dirette chè fui fortunato nel’ eseguire il mio adempimento militare. […]”
Il breve ricordo della vita militare di un vice-caporale del 25° Battaglione della divisione Cacciatori in servizio presso l’esercito asburgico, che partecipa a numerose azioni al confine con la Turchia e in difesa dagli assalti dei soldati montenegrini. Come premio per il suo coraggio, per alcuni mesi è addetto al servizio di guardia dello stesso Imperatore Francesco Giuseppe. La testimonianza si interrompe alla vigilia di un’importante battaglia.
Carissimo Augusto Mio!
“Carissimo Augusto!
S. Piero 27 Aprile 1882
A me pure le tue lettere giungono graditissime, poiché al presente, posso rilevare da esse, che sei molto migliorato. Non più sciocche espressioni, che facciano in te supporre una riprovevole e nauseante leggerezza di spirito, ma invece moderazione, naturalezza, spontaneità, ed una certa delicatezza. Va bene, Augusto, sinceramente mi congratulo teco, e ti esorto caldamente ad avanzare sempre più nella buona via in cui ti sei messo, ed a perfezionarti sempre più. Augusto, te lo assicuro, ti troverai contento, se porrai in pratica, quanto per il tuo bene, t’inculco.
Vedi?…Certi atti, certe espressioni, fanno supporre, ad una fanciulla, che il giovane abbia brutte abitudini, o che l’abbia messa nel numero di quelle sfacciate civettuole, e poco riservate donne, a cui piacciono atti sguaiati e sconci…[…]”
In nove lettere, l’intensa quanto breve e sfortunata storia d’amore, tra un medico marchigiano ed una giovane nobildonna romagnola: la diversa condizione sociale, lo sparlare paesano, qualche incertezza di lui nel decidersi al matrimonio, concludono un rapporto che l’uomo non dimenticherà tanto da dare il nome dell’amata alla sua prima figlia.
Carissimi figlioli belli
“lettera n. I – 14 dic 44
Cara Elena,
Sembra che un occasione ci si presenterà domani di far partire una lettera al tuo indirizzo; ed io la scrivo pur senza esserne ancora sicuro ma colla speranza che essa possa portarti le nostre buone notizie ed i nsotri pensieri affettuosi.
Un amico che stava per partire quando noi arrivammo mi ha promesso di telefonarti; se ha mantenuta la promessa tu avrai a quest’ora saputo che noi abbiamo fatto un ottimo viaggio e che siamo giunti felicemente a destinazione. Quasi tre giorni abbiamo dovuto aspettare che il tempo fosse favorevole, trattati come principi in un castello incantato, ma impazienti di prendere il volo. Ed il volo abbiamo finalmente preso domenica mattina con un tempo splendido. […]”
Il professor Gustavo, precendemente rifugiato in Svizzera con la famiglia, insieme ad altri 9 intellettuali del Nord, tra cui il futuro presidente Einaudi, nel 1944 viene richiesto dal governo Bonomi a Roma per collaborare alla ricostruzione politica, sociale e culturale dell’Italia. Sarà nominato presidente del ricostituito Cnr. Nella capitale lo segue la moglie, mentre restano in Svizzera i cinque figli della coppia, la maggiore dei quali, Elena, è la corrispondente epistolare dei genitori. Uno spaccato sui momenti cruciali della ricostruzione del nostro Paese, sospeso tra la precarietà di una liberazione non ancora completata, ma già animato dal fervore lavorativo di personalità illustri, quali i due autori dell’epistolario.
Storia della famiglia attraverso le lettere
“Gorizia 30 aprile 1921
Carissimi,
ho ricevuto la vostra lettera e mi sono consolata leggendo le buone notizie; sono stata davvero senza testa non mandandovi il nostro indirizzo.
2 maggio 1921
Tutti due stiamo benissimo e siamo contentissimi; io mi faccio onore con i miei pranzi, specialmente con le minestre che Guglielmo dice che sono tanto sostanziose! Per fortuna che la pasta sciutta è il nostro forte, altrimenti in pochi giorni si farebbe concorrenza alle mazzette di tamburo.
Io credo che non mi riconoscereste più vedendomi lavorare tutto il giorno; faccio tanto volentieri però come non l’ho mai creduto. Guglielmo mi aiuta molto ed anche l’attendente che lava i piatti, scopa ecc. Ora è in licenza ma ritornerà presto; in questo frattempo abbiamo trovato un altro che è pure bravo. […]”
Oltre vent’anni di corrispondenza intercorsa tra un ufficiale di sussistenza, sua moglie e i loro tre figli, e la famiglia di lei, residente nella provincia di Udine. I numerosi traslochi dall’Istria – ancora italiana – alle colonie libiche, da Firenze, a Venezia, e poi l’organizzazione della casa, l’educazione dei figli, le vicende belliche, le belle novità ma anche i lutti famigliari; nulla turba la solida intimità di un nucleo famigliare medio-borghese.
Giornale familiare
“GIORNALE FAMILIARE
politico anticanagliesco
Quotidiano della sera
Roma – Sabato 8 aprile 1916. Anno II n. 99
Camera — fratello — Papiro 16 filiale 24. Anno II n. 161
Per gli abbonamenti rivolgersi a Gino Ambrosetti – Via Monserrato n. 43 Roma
Critica e arte
Nessuno può negare che tutti abbiamo diritto di critica al più completo, anche se essi non sono capaci di compiere quelle opere d’arte che essi intendono criticare. Qualunque spazzino può innalzare la sua erudizione fino a criticare la “Commedia”, il “Furioso”, il Petrarca, la “Gerusalemme”, anche se egli non sia neanche capace di scrivere un verso. Ma non bisogna confondere, bisogna, in ogni modo, tenere bene distinto critica e malignità. E quanti non sono, purtroppo che per odi speciali contro qualche artista, per invidia soprattutto, lo criticano, e, oltreché criticarlo, anche ciò non permesso, si permettono d’insultarlo. Questo non si chiama criticare ma malignare stupidamente, questo non è amare l’arte e il bello, ma odiare ogni forma, non è avere gusto, ma non capire nulla.[…]”
Il giornale-cronaca di un sedicenne della borghesia intellettuale romana che tiene un diario in terza persona annotando con ironia fatti sulla scuola, sui suoi numerosi interessi culturali e sportivi, ma anche sulla guerra e sul difficile dopoguerra. Ne emerge un affresco della Roma dell’epoca, la frequentazione di teatri e caffè, le nuotate nel Tevere con il fratello, ma anche la cura del terrazzo giardino alla quale il giovane si dedica con quotidiana passione.
A Fiume con D’Annunzio
“ Cantrida 23/9/19
Carissimi
Credo che finalmente sia ripristinato il servizio postale tra Fiume e l’Italia dato che parecchi miei compagni an ricevuto lettere da Trieste. Infoimatevi alla posta se partono lettere e scrivetemi qualcosa. Indirizzate al “Battaglione volontari Venezia Giulia” compagnia Sacro Fiume caserma V. Giuseppe Panini. Di lì le lettere me le spediranno qui. Credo che oggi o domani abbandoneremo Cantrida per recarci ad Abbazia o in qualche altro luogo. E’ un provvedimento che giunge a tempo, perché qui abbiamo un servizio assai duro. Oggi è stato un giorno fortunato: il comando c’a fatto una buffa improvvisata: abbiamo ricevuto camicie, sapone, calze, gilè, nastro della medaglia, cinquina …se oggi o domani ricevo un paio di stivali posso calcolarmi poco meno d’un Papa. Siamo passati il XX in rivista primi fra tutti. E’ stato buffo.
Saluti tutti e molto specialmente il letto che farebbe bene a venire anche lui quassù volontario.
Gastone. […]”
Ha quindici anni quando parte volontario da Trieste per partecipare con D’Annunzio all’impresa di Fiume. Da lì scrive a casa fiero dei suoi ideali, deluso dal governo italiano, pieno di disapprovazione per chi è rimasto a casa. Ma chiede anche pacchi e libri per continuare a studiare e dare gli esami. Si interessa della famiglia, soprattutto della salute del padre.
Le mie avventure
“Colorio di Verghereto . FO. 199
Diario
Le mie avventure
Qui il poeta Remo Rosati
riporta, minuziosamente
le avventure. Di cui e
stato, protagonista,
nel corso della sua vita.
Canto I
O Musa, che nell’Ere a noi remote
del tuo canto echeggiava l’Alicona
accompagnato dalle dolci note
della Cetra del figlio di Latona
Fai si, che dietro non tornin le note
se la mia mente, cede e S’abbandona
Dai forza e rima a questa Poesia
che io possa cantar la vita mia […]”
Prima agricoltore nel podere di famiglia, poi emigrante in cerca di fortuna, infine operaio in fabbrica a Prato: tutta una vita di lavoro, nell’autobiografia, in ottava rima, di un toscano che, giunto finalmente in pensione, coltiva la passione per la poesia.
In una lettera del settembre
“ 1946
Febbraio – Agosto
ELEZIONI REFERENDUM PRIME TRATTATIVE A PARIGI
12 febbraio 1946
In una lettera del settembre 1909 alla Contessa d’Albany di Sismondí (contenuta nel 1° volume dell’Epistolario raccolto dal Pellegrini — pag. 289) c’è un quadro assai vivo di quel momento. Egli dice: Dans la crise ou nous vivons, ce sarait grande folie que de s’inquiéter de l’avenir; qui peut savoir à quoi il appartiendra? Rien de ce qui nous entoure ne porte un caractére de durée. Nous sommes arrivés aux extremes de tout. Ce n’est qu’à présent qu’on commence à sentir les effets de la Révolution parce qu’à présent seulement ceux qui sont nés pendant ses premières années entrent dans l’age de la force et des combats; une vide énorme se présente dans la population, les nombres des mariages est réduit d’une manière effrayante, les ouvriers manquent à l’agriculture; les denrées ne trouvent plus des acheteurs, les fermiers sont obligés de résilier leurs baux et d’abandonner les travails des campagnes; le commerce et les manufactures sont depuis longtemps en mine; tout s’epuise, tout finit et cependant avec cette misère et cette dépopulation la guerre va recommencer du Nord au Midi. Nous sèrons bienten reduit à l’état ou nous voyons la Valachie et la Bulgarie. (Settembre 1809)
Qualche parte di quello che sopra è detto si verifica anche ora e si verificherà probabilmente di più in seguito […]”
Eugenio Anzilotti è direttore generale del Ministero del Commercio estero e membro della delegazione italiana che segue i lavori della conferenza per la pace a Parigi, nel 1946, alla fine del secondo conflitto mondiale. Nel suo diario si alternano giornate di tensione dedicate a discussioni politiche, economiche e territoriali, come quelle riguardanti il futuro di Trieste, dell’Alto Adige e della Venezia Giulia, a quelle più distese dedicate alla scoperta delle ricchezze artistiche parigine.
U’ signur maghestr
“ANNO SCOL. 1955-‘56
Diario e pensieri sparsi
“Ciò che è importante nella vita è donare una testimonianza” (Bernanos)
15 ottobre 1599.
Il bidello Guerrino mi ha portato un biglietto col quale il Direttore Didattico Romeo mi ha assegnato una supplenza. A voce il bidello mi anticipa che è una supplenza breve, di pochi giorni, nella scuola di S. Elia, comune di Alessandria del Carretto, in prov. di Cosenza.
So che questo paese è in alta montagna, alle falde del Monte Sparviere, propaggine degli Appennini Calbro-Lucani.
Lo sguardo di Guerino già la dice lunga su questa scuola […]”
Assegnato come supplente nelle sedi più disagiate dell’entroterra cosentino, un giovane maestro trova di fronte aule come stalle, prive di qualunque strumento didattico. Un’esperienza che lo formerà come uomo e come insegnante.
Cara sorella
“Cussignacco, 20-1-916
Cara Sorella,
Al giorno 13 ricevetti la tua gradita lettera, ed eccomi finalmente a darvi mie nuove. Forse avete pensato male per il mio lungo silenzio, ma ho aspettato un po’ a scrivervi appunto perché volevo prima sapere se quando arrivano quelli della licenza noi ci rimaniamo quà, oppure dove andiamo. Difatti per il giorno 23 devono essere arrivati tutti, e dicono che questa batteria al giorno 27 parte e va sul monte […], e giù ne viene un’altra pure dell’11°, ma di noi non ne discorrono ancora, né che ci aggregano all’altra, né che ci mandano al nostro reggimento, né che ci mandano in licenza…né di niente […]”
Una fitta corrispondenza giornaliera racconta quattro anni di guerra che un soldato semplice è costretto a vivere fra continui spostamenti da una batteria all’altra. Dal Carso a Caserta (dove vivono i “beduini”…), finalmente “imboscato”, alterna notizie di guerra a richieste di giornali, informazioni su parenti e racconti di numerosi incontri, sempre preoccupato per la censura e per gli affari di famiglia.
Tanti anni insieme
“… eppure bisognerà riprendere questo colloquio che abbiamo bruscamente interrotto, tornare a vivere insieme nella nostra casa, dialogare di tanti interessi comuni, di tante cose che ci hanno legato, per un così grande numero di anni… lo cerco di rammentare, di far emergere dalla memoria le note salienti del tuo carattere: schivo, chiuso, riservato, quasi ombroso, timido in ultima analisi dinanzi alle persone nuove, che potevano lì per lì scambiare per fierezza, quasi per alterigia questo atteggiamento e sentirsene in soggezione. Invece è riservatezza la tua, una sorta di pudore dei tuoi sentimenti […]”
Una “madre e casalinga” friulana, laureata in lettere, rievoca tutte le tappe della propria esperienza di coppia: l’incontro nel 1920 con il fidanzato che torna ferito dalla prima guerra mondiale, il matrimonio che viene scandito dalla nascita di undici figli, la brillante carriera di lui nella magistratura, gli spostamenti per lavoro, i lutti famigliari fino a quello del 1970, che la separa per sempre dal suo compagno.
Carissima mamma, io mi ero preparato di scriverti
“Alla signora Lucrezia Bertelli Pistoia
Modena, 10 aprile 1848
Carissima Mamma,
io mi era proposto di scriverti da Modena ed ecco che mantengo la mia promessa.
Da Montasidone dove ti scrissi l’ultima volta colla mia compagnia ed altre andammo a Formiggine, paese distante da Modena sole 7 miglia, e che era stato destinato a punto di riunione di tutta la truppa toscana che doveva arrivare in
Lombardia. Infatti ieri, domenica, alle ore 4 pomeridiane entrammo in Modena, 8 compagnie di volontari, 5 di linea, 2 di granatieri e tre pezzi di artiglieria in tutto circa 1700 uomini volontari. Sandro lo vidi con gran piacere a Formiggine, marciammo insieme fino a Modena, dove arrivati non mi è stato possibile più rivederlo […]”
Una serie di lettere alla madre che ci fanno ricordare, grazie a una famiglia di Pistoia, come centocinquanta anni fa si combatteva per una causa che era quella – come scrive Bertelli – delle “forze combinate di tutti i popoli italiani”.
25 Aprile 1906
“25 aprile 1906
Ecco una data memorabile: la prima data veramente memorabile della mia vita, per me. Non é una data triste, in fondo, questa della mia partenza per Catania. Me lo sono ripetuto cento volte, mille volte che é stata una gran fortuna per me vincere questo concorso; appena finiti gli studi, e ottenere subito, così insperatamente, quello che i più ottengono solo in capo a tre o quattro anni di attesa ansiosa e di amara incertezza: un posto governativo. E mi sono sempre rimproverata di non sapere apprezzare abbastanza questa fortuna e di mostrarmene indegna. E’ inutile, era cosa troppo dolorosa per me lasciare la famiglia, lasciare Roma, staccarmi violentemente da un luogo cosi caro per andare incontro a una vita ignota, in una città lontana ed ignota. E poi avevo avuto il torto di sperare cosa facile ottenere il posto a Roma, e i miei avevano avuto l’imprudenza di confermare questa mia speranza: così che la delusione che ne seguì, dopo i vani sforzi per rimuovere la decisione del ministero, fu per me un colpo veramente terribile.[…]”
Tre mesi nella vita di una neolaureata in archeologia destinata a Catania come bibliotecaria. Una personalità curiosa annusa la società siciliana in un viaggio di lavoro che segna l’emancipazione sofferta ma necessaria dalla propria famiglia.
I fatti veri
“Le mie due nonne, nonna Ida e nonna Amelia, erano completamente diverse una dall’altra.
Nonna Amelia, che io da piccina chiamavo nonna Menna, la nonna materna, alta, diritta, elegante, attiva, aveva tutti i capelli bianchi. Era imbiancata prestissimo, come mamma del resto. E anch’io questo l’ho ereditato da lei. A parte l’aspetto però aveva tutte le caratteristiche della nonna tipica. Era lei che cucinava e mi faceva tutti i mangiarini e i dolcettini buoni, era lei che si occupava di me, mi coccolava e mi raccontava le novelle classiche, come “Cappuccetto Rosso”, ma soprattutto le mie preferite: “I tre porcellini”, quella che tanti anni dopo fece Walt Disney, e “Buchettino”, una novella toscana con Buchettino che era una bambino povero che spazzando la chiesa trovava un soldino sotto un mattone, e con quel soldino ci si comprava i fichi, perché di tutta la varia frutta era quella in cui c’era meno da scartare e quindi più conveniente. Poi naturalmente incontrava l’Orco che lo voleva mangiare, ma Buchettino, furbo, riusciva a farla franca.
Nonna Ida invece, che avrebbe avuto tutta l’aria della nonnina più tipica, le novelle non le sapeva; lei mi raccontava soltanto i “fatti veri”, quelli successi a lei o alle persone che aveva conosciuto nella sua lunga vita..
Nonna Ida era vecchia vecchia, o almeno così pareva a me, in confronto a nonna Mena. Ma aveva i capelli tutti neri. Li portava con la riga in mezzo, divisi in due bande e raccolti con una crocchiettina in cima al capo. Credo che sia stata la sua pettinatura tutta la vita […]”
Dalle campagne toscane alla Turchia, una grande storia famigliare illuminata dalla figura del padre Ezio Bartalini, fervente pacifista, che sceglie l’esilio volontario in giro per l’Europa per fuggire le persecuzioni fasciste.
Quando, nei primi giorni di marzo
“Quando, nei primi giorni di marzo dell’anno 1938, lietamente mi congedai da quelle compagne di classe che restavano a scuola mentre noi altri partivamo per una settimana di sci, ero del tutto ignara che non avrei mai più messo piede in quella casa, anzi, che già ero afferrata dell’onda che stava per strapparmi così bruscamente dal mio paese, dall’infanzia. È vero che da molto gli scambi erano manovrati; la situazione politica tesa al massimo e il crollo prevedibile. Per la diciassettenne però tutto questo non era che un vago disagio in confronto alle tensioni più urgenti create dallo sviluppo della propria personalità.
Ero allieva di ultima classe del liceo scientifico a Floridsdorf, stavo dunque davanti agli esami di maturità. Nel corso di quest’anno ero rincorsa in una crisi nervosa che, insieme ad altri fatti familiari, aveva per conseguenza, che quel periodo, invece di abitare con la famiglia a Floridsdorf, stavo con la mia maestra venerata, che mi aveva accolto.[…]”
Figlia di madre ebrea e di padre ariano, quando i nazisti si annettono l’Austria, nel 1938, si trasferisce con i parenti in Italia, dove diventa infermiera. Racconta di molta solidarietà, ma anche di dispiaceri famigliari e di sue profonde amarezze affrontate con coraggio. Costretta alla clandestinità, dopo l’8 settembre 1943, si salva rifugiandosi a Torre Pellice e, dopo la guerra, emigra in Palestina.
Carissimo Vincenzo mio
“Da Jone Leporini a Vincenzo Farina.
(V. Farina, 5″ reggimento Artiglieria. Compagnia deposito. S. Nicolò Lido, Venezia.)
Domenica 14 Maggio 1916
Carissimo Vincenzo mio,
ti scrivo prima di ricevere tue notizie più precise di quelle che mi hanno recato ieri le tue cartoline e il telegramma, perché possa almeno in questo modo trovare il conforto di sentirmi più vicina a te. Vincenzo mio, che farai a quest’ora? Sono le undici di sera di domenica. Io penso alle domeniche passate, in cui noi più liberi, potevamo stare insieme. Da Venerdì ti ho seguito costantemente col pensiero: nella mia mente e nel mio cuore non c’è stato posto che per te e se dolore ho provato oltre a quello della tua partenza, è stato quello di non averti potuto dire nella commozione dell’ultimo momento, fino a che punto io ero straziata dal doverti lasciare, fino a che punto ero tua. […]”
Vincenzo Farina parte volontario per il fronte nel 1916: pochi giorni dopo, comincia un fitto epistolario con la fidanzata Jone Leporini. Sono 468 pagine decifrate e trascritte con pazienza, che raccontano due punti di vista diversi e complementari sull’evento Grande Guerra. Vincenzo è un patriota preso dalle vicende belliche, intenzionato ad avere un ruolo negli eventi e anche a progredire nella carriera di ufficiale. Jone è una ragazza pratica e pragmatica, che pensa al presente e a pianificare la vita nella tranquilla città di provincia in cui vive, invitando il fidanzato a non fare l’eroe in battaglia e a pensare a preservare la propria salute
I ricordi di Un Emigrante Pievano
“Buenos Aires 15/1/91
I ricordi di Un Emigrante Pievano
A 26 anni dopo aver sopportato 5 anni di militare in guerra e, prigionia in Africa, il giorno 7 gennaio 1948 partii da Genova emigrando in Argentina. Oltre 13.000 sono i km. aerei e, quasi 15 le ore di volo che separano l’attuale residenza dal mio paese d’origine e, 43 sono gli anni ormai trascorsi da che mi allontanai. Ricordi!! !! … quanti!!!! … quanta miseria si allora, ma anche quanta preziosa esperienza e rara astuzia imparata nel mio paese anche se a caro prezzo. Voglio dire che, almeno per me, nessuna scuola letterata o, tanto meno l’attuale presunta progressiva e migliore condizione economica di illudente benessere, potrebbero insegnare e giovarmi positivamente di più, quanto le povere restrizioni di quei tempi, mi regalarono in termini di scaltrezza, di capacità e di sopravvivenza. Sono nato a Pieve S. Stefano da modesta famiglia di Artisti operai nel 1921, furono nell’era i tempi in cui la vivace semplicità e l’onestà intuitiva risolveva con il sorriso sulle labbra e con rara modestia ogni problema sia duro che durissimo […]”
Dante Crescioli, emigrato in Argentina, ripercorre a ritroso il filo della vita e torna alla sua infanzia, dove ritrova – nel ricordo – la sua Pieve intatta.
Una ricostruzione vivida del paese: l’architettura, gli abitanti, le usanze, le feste popolari.
Con la memoria Dante ripercorre ogni strada, rivede ogni volto. Se li ritrova davanti agli occhi in tutta la loro luminosità, come se Pieve non fosse mai stata distrutta, non nel suo cuore.
10 giugno 1940 – 25 aprile 1945
“Era una giornata calda del mese di Giugno e precisamente il giorno dieci del 1940, c’era tanta gente in paese, perchè la tradizionale fiera del nove cadeva di domenica, perciò venne spostata al lunedì. Verso le quattro del pomeriggio, nella terrazza del circolo che era sopra al Caffè della Elettra, oggi Bar dello Sport a Piazza della Repubblica, due o tre zazzicavano per mettere una o più cassette di legno, detti altoparlanti, perchè Duce doveva parlare per radio alla Nazione (l’Itaglia). Di tanto in tanto quei cassettoni fischiavano poi friggevano, finalmente, preso il punto o l’onda giusta di Roma, si cominciò a sentire il suono e i canti delle canzoni del tempo dette patriottiche: Faccetta nera, Giovinezza, Duce! Duce! Tu non saprai morir..ecc….tra una canzone e l’altra urla inneggianti un sola nome: Du ce! Du ce! Du ce! […]”
La vita di un ragazzo in tempo di guerra in un piccolo paese della Toscana. Il padre è al fronte e lui deve andare presto a lavorare in cambio di cibo, ma non tralascia giochi e “veglie” dai vicini. In primo piano la guerra con i suoi orrori che terminano con la distruzione del paese minato dai tedeschi in fuga.
La dura vita della mia giovinezza
“Non avevo ancora compiuto vent’anni, quando mi giunse la cartolina precetto sul monte argentario (GR) dove mi trovavo con altri miei compagni di sventura, Butteri Francesco, Gori Giona, Bellucci Belluccio e Domenico Fabbri a tagliare il bosco. Mia sorella Luisa era a Firenze impiegata nella farmacia Gualtierotti adiacente il Ponte Vecchio. Mio padre morì in Francia, a Marsilia il 19 marzo 1927, quando avevo appena sei anni, ed allora incominciò la mia odissea […]”
La vita dura della giovinezza e poi quella ancora più dura di guerra in Jugoslavia e di guerriglia nella divisione Garibaldi, raccontata da un pensionato.