PREMIO PIEVE 2025

1945-1925 Il ritorno della memoria

Viviamo in un tempo in cui la metà degli elettori non esercita più il diritto di voto. In cui il bilanciamento dei poteri all’interno dello Stato è visto come un intralcio. In cui la prospettiva di volare su Marte e colonizzare lo Spazio ha più valore di portare la pace a un popolo in guerra, impedire a un migrante di morire in mare, curare un malato indigente, un minore o un anziano non autosufficiente. Ma abbiamo già conosciuto un’epoca in cui la maggioranza della popolazione si ribellava all’ordine, la volontà fulminea e violenta di pochi prendeva il sopravvento sulle incertezze dei molti, la fascinazione verso la velocità e il futuro ci facevano dimenticare la solidarietà e il mutuo soccorso. È successo a partire da un secolo fa, quando la maggioranza degli italiani ha scelto il fascismo e ci sono voluti vent’anni per tornare liberi, a prezzo di una guerra mondiale e di una guerra civile.

A ottant’anni di distanza abbiamo festeggiato quel giorno luminoso, il 25 aprile 1945, quando grazie all’insurrezione partigiana e alla marcia delle truppe alleate è avvenuta la Liberazione del Nord Italia dall’occupazione nazifascista e si è aperta la stagione della rinascita per un’Italia finalmente democratica e repubblicana. Anche se oggi guardiamo a quell’anniversario con sguardo preoccupato, perché troppe similitudini ci ricordano i peggiori passaggi delle pagine più nere della nostra storia. “La fine della storia” s’intitola il celebre e discusso saggio di filosofia politica scritto da Francis Fukuyama nel 1992, dopo la caduta dell’Unione Sovietica. “La storia è tornata” hanno ribattuto in molti dopo l’invasione della Russia in Ucraina trent’anni dopo.

Noi invece invochiamo “il ritorno della memoria”: per quanti a differenza di noi in questi anni se ne fossero allontanati, per quanti avessero imboccato ingannevoli scorciatoie alla ricerca di una soluzione ai mali del nostro tempo, per quanti avessero dimenticato l’abisso in cui siamo sprofondati un secolo fa e quale sia il sapore della libertà riconquistata. Venite o tornate a trovarci. Ci sono alcune migliaia di diari, alcune centinaia di migliaia di pagine sugli scaffali dell’Archivio dei diari che vi aiuteranno a recuperare la memoria e vi sapranno guidare nelle scelte difficili del tempo che ci aspetta.

1945-1925 I diari raccontano

Maria Rachele Ciccarelli
25-26 aprile 1945. Giornate che nella vita non si dimenticano. La liberazione di Milano e tutta la valle padana a mezzo dei Patriotti italiani e specialmente dei Garibaldini. La fine dei fascisti nazisti è venuta. A Milano i Repubblicani non hanno fatto nessuna resistenza, eccetto in certi punti la fanno ancora. Liberi. Cosa vuol dire per noi liberi. Mi sembra impossibile. Non più la carogna repubblicana alle coste. Anche qui in sanatorio è avvenuta la liberazione. Tutti coloro che facevano del male ai nostri dottori sono stati arrestati. Che orgoglio vedere quei bravi ragazzi forti e coraggiosi. Non ho parole per esprimere la mia felicità, forse domani cercherò.

Antal Mazzotti
25 aprile (mercoledì). È un giorno decisivo di cui si comprenderà meglio in avanti significato e spessore. Intanto godiamo insieme il tripudio, l’esplosione di vitalità risalente dal profondo e quasi incredibile con quella fame mai saziata del tutto, la scoperta inebriante della libertà non più condizionata e ambigua come quella del 25 luglio, il sentimento di una nuova fraternità e dell’appartenenza a una comunità, quasi in una nuova fede, il gusto della politica, del poter parlare a voce alta con chiunque senza guardarsi dattorno. Un ritorno alla vita. Ognuno è fatto spettacolo all’altro, come su un immenso teatro. E poi la bellezza del riprendere le fila dell’avvenire, i progetti, senza più l’incubo della guerra.

Margherita Ianelli
Sola con le bestie, incurante di quello che stava succedendo, io piansi a lungo, ma dopo mi ritrovai sollevata, anzi sentivo che dovevo farmi forza e pensai: “Tutto quello che è successo fa parte della guerra, con schianti di cannonate, pallottole che mi sono passate accanto alle orecchie, nonostante a tutto sono sana e salva anzi siamo salvi tutta la famiglia il resto conta poco”.

Mario Tutino
Ma quando entrando in Viale Piave 5 annuncio risolutamente: “Tutto è finito, si stanno trasferendo i poteri al Comitato di Liberazione Nazionale”, esplode un grido irrefrenabile, i pochi presenti si precipitano, chi in strada, chi su per le scale a informare i parenti, a informare i vicini. La vera scia di polvere, il subìto incendio; in un attimo tutta la strada, tutto il rione è in subbuglio.

Severina Rossi
Intravidi appena i miei genitori. Sul cancello del cortile, gli amici del rione Cappuccini, avevano issato rudimentali bandiere di carta rosse, su lunghi bastoni, che sventolavano un po’ goffe ma significative, tra scritte di benvenuto e di evviva. Il mio nome era scritto ovunque e io mi vergognavo per timidezza. Ci fermammo in piazza Garibaldi e poi a S. Siro, ove persi di vista tutti i miei compagni di sventura senza poterli salutare perché tolta di peso, trascinata e portata in spalla, contesa da tutti, da gente che conoscevo e da gente che non conoscevo, gente che mi baciava, gente che mi chiedeva, gente che mi ringraziava.

Ennio Nozza
Tutte le case fecero a gara ad organizzare nei cortili, feste danzanti all’aperto, festoni colorati venivano stesi tra i balconi e le ringhiere, palloncini colorati veneziani, quelli con dentro la candela erano appesi alle finestre, bandiere rosse e tricolori messe dappertutto. Noi ragazzini venivamo ingaggiati a suon di gazzose e caramelle a fare funzionare grammofoni e cambiare i dischi.

Folgore Vella
E vennero finalmente le giornate convulse e inebrianti della lotta a viso aperto e della ritrovata libertà. Sono in attesa da alcuni minuti, quando una furiosa sparatoria scoppia nei pressi. L’aria è piena di spari e del sinistro ronzio dei proiettili. Mi appiattisco sul fianco della scalinata d’accesso al Palazzo di Giustizia e apro il fuoco anch’io. Lo scontro dura a lungo. Poi un autocarro di partigiani armato di una mitragliatrice viene in nostro soccorso: alcune raffiche ben dirette mettono a tacere i cecchini. Trascorrono pochi istanti e dalle macerie si alza un uomo, le mani in alto, che, incespicando, avanza lentamente verso di noi. Io e gli altri partigiani gli corriamo incontro. Quando gli siamo vicini, ci troviamo di fronte ad un ragazzo, forse nemmeno quattordicenne, ferito alla spalla sinistra, la divisa fascista sporca di sangue. Lo sciagurato, terreo, tremante di paura, piange. Dalle finestre di case vicine voci di donna urlano: “A morte! A morte! Fucilatelo!”. Noi invece ci guardiamo l’un l’altro poi, interpretando il pensiero di tutti, dico: “È appena un ragazzino. Lasciamolo vivere”. Gli stringiamo una cinghia attorno alla spalla ferita, fermiamo un’autoambulanza di passaggio e ve lo spingiamo dentro.

Magda Ceccarelli De Grada
24 Aprile 1945 (sera). C’è un’aria di festa, una strana euforia sui visi delle persone, nei gesti, nel passo. Nulla è detto e tutto è sottinteso. En. mi comunica la strabiliante notizia che l’accordo fra i tedeschi e il comitato di liberazione sta per essere firmato: la città non sarà toccata. Uscire dalla guerra così, senza agitazioni telluriche, senza bombardamenti gravi, senza spargimenti di sangue! Mi pare troppo bello e troppo facile! Ritrovare i miei figli. Vedere il piccolino: baciarlo. Smettere di nascondersi e di mendicare alloggi! Liberare i nostri ragazzi da S. Vittore. È troppo bello e anche troppo triste, senza la vicinanza delle persone amate. Mi sento esaltata e depressa.

Elsa Pelizzari
Aprono la porta e mi ordinano di salire sull’ultimo camion. Ho la conferma che per me è la fine. Mi portano in Germania o mi fucilano. L’autista dell’automezzo è un uomo anziano dai capelli bianchi tagliati a spazzola. Ha il viso stanco, mi ricorda mio padre. Gli dico che mio padre aveva i capelli come i suoi e che è morto. Il tedesco mi guarda, nei suoi occhi non c’è il rancore, penso di impietosirlo. Ed anche a lui dico di essere stata costretta dai partigiani a svolgere quell’incarico. Mi chiede gli anni e mi risponde “anche io ho una figlia della tua età”. Così parliamo per circa un’ora, il tempo perché la colonna ritiri le mitraglie poste ai crocevia, poi la colonna si mette in marcia. Il tedesco è al volante, lascia che il penultimo camion dell’autocolonna parta, ritarda di qualche attimo e, giunto alla prima curva, mi dice “Raus, Raus, svelta, svelta” e mi fa cenno di scendere. Non credo alle mie orecchie, con un balzo sono a terra e, presa la via della campagna e correndo a perdifiato, raggiungo i partigiani che avendomi creduta morta, avendo sentito la raffica, mi accolgono festosamente.

Saverio Tutino
14 maggio 1945. Quello che ci appare più grave è il doverci lasciare – da compagno a compagno di una lotta severa e dolce al tempo stesso – e subito ce ne mostriamo costernati addirittura. Siamo commossi: il risultato ci pare enorme, ci stupisce perfino. Siamo capaci di un’emozione simile al nodo nella gola dei bambini, tanto siamo cambiati in quel mondo che ci siamo fatti da noi, senza accorgercene.
Ricordo la severità di certe riunioni del comando, in una casa qualunque, per scegliere altri quadri, sviluppare quelli già esistenti: un atto creativo, specchio di una morale, la scelta, l’eliminazione successiva, le cure necessarie, tutto si svolgeva in quell’atmosfera nitida di innocenza.
Chiedevamo al destino lotta e sacrificio, e chiedevamo anche l’onestà, senza paura di fingere.
Da questa atmosfera si sono creati degli uomini che dicono – loro stessi – di sentirsi maturi, temprati nello spirito.
Ho già sentito ripetere da tre o quattro, questa frase: “…io mi sono fatto una coscienza…”
Dirlo così, – semplicemente – senza tono da intervista, ma solo coll’esigenza di sincerità e di apertura che ha l’annuncio di una cosa lieta, è la prova più bella della verità. Così come quel pianto: il primo giorno di festa, per noi, – passando col camion attraverso il “nostro” paese – mentre ci buttavano fiori dalle finestre, dalla strada e tutti gridavano e applaudivano pieni di entusiasmo, stavo ridendo e forse gridavo anch’io, quando mi volsi e vidi Lalli e Fanfulla, fermi, stretti l’uno all’altro sul sedile, che piangevano e subito anch’io mi misi a piangere.
La cosa più grave è proprio quella del doverci lasciare: Bologna, Torino, Milano ci divideranno. Siamo tutti giovani sui vent’anni: dai diciannove ai ventidue, ventitré. Ci pare strano che qualcuno, forse, non ci prenda sul serio completamente. Non tutti capiscono come rende l’uomo serio e maturo, il vedere altri giovani morti e straziati, il combattere contro tutte le avversità, fisicamente, sì, ma sostenuti dalla ragione; il giudicare della vita o della morte di altri uomini colpevoli di delitti; non tutti lo possono capire subito. E noi abbiamo una grande paura: quella di affogare di nuovo nelle banalità di prima. Per questo ho detto: la cosa più grave è proprio quella del doverci lasciare.

Carla Persico 
15 dicembre 1950. Comprendo le responsabilità che tu senti per quanto ti vedi invaso, in maniera un po’ eccessiva, dalla psicosi bellica: così son tutti gli Americani? Da noi c’è più serenità, non so perché. Tutti seguirono invece, intensamente, il periodo di fine novembre, quando Truman minacciò di bomba atomica, fu terribile per noi. Comprendemmo tutti l’estrema gravità del fatto e una volta tanto auspicammo l’intervento dell’Inghilterra perché un po’ di calma fosse fatta. Ma poi, a volte, guardiamo il nostro bel cielo, attingiamo alla nostra saggezza millenaria… e facciamo un po’ di filosofia. Cerchiamo di non diventare nevrastenici come sono ora gli Americani. Abbiamo ormai compreso quasi tutti le intenzioni della Russia: la temiamo ma sentiamo, forse scioccamente, che ancora non si muoverà e che, comunque, preferirà ancora per vario tempo, che altri [popoli] si facciano squartare per lei. Le 700 bombe atomiche degli U.S.A. ancora la spaventano e, come una saggia formica, preferisce accumularne delle altre e fare agire le quinte colonne – vedremo – in questi giorni che sarà: è un momento di punta, questo perché se non si muove mentre si decide il riarmo della Germania, è segno che ancora non può – e – che minaccia, per ora, a vuoto. Ancora non sappiamo: certo le cose vanno molto male – ma la difesa dell’Europa, anche se lentamente, fa dei passi avanti: e quindi è sempre meglio ieri che domani perché anche le sonnacchiose talpe finiscono con lo svegliarsi e cercare di agguerrirsi se attaccate. Noi vediamo questa mobilitazione americana con terrore – perché le armi ci fanno terrore – ma come un inevitabile male che forse potrebbe dar bene. Abbiamo ormai compreso che le discussioni sono pressoché inutili, se non si fa, bubù, con un fucile dietro la schiena! Non pensi anche tu così? Il movimento a sinistra è rispettabilissimo, e avviene davvero nell’ordine delle cose, ma non pensi che la maniera con cui russi ed amici partecipano alle conversazioni internazionali, sia spiacevole e poco onesta?

Nancy Azab 
Viviamo nell’era degli iperconnessi. Abbiamo accesso ad ogni tipo di informazione, eppure davanti ad immagini di guerra o persone che muoiono di fame ci indigniamo in fretta ma in fretta torniamo indifferenti.

Elona Aliko 
Odessa, 20 maggio 2023. Mentre guardo la “casa-rifugio-antiatomico” non riesco a non pensare ai tantissimi volti dei militari che ho visto in questi mesi. Alle numerose trincee che non avrei mai pensato di vedere in vita mia. Una volta sono andata a vedere le trincee della prima guerra mondiale, in provincia di Bergamo, e quando ero là cercavo di immaginarle piene di soldati. Ma non riuscivo, o forse non volevo, perché appartenevano alla storia del passato. Molto lontana ormai. Qua le trincee sono il presente. Ora. E sono abitate da uomini e donne che potrebbero essere i miei figli, fratelli e sorelle. La violenza che si trovano a subire e vivere quotidianamente porterà in loro cicatrici che non guariranno mai. E non potranno mai essere gli stessi dopo aver combattuto, non potranno mai dimenticare l’orrore che hanno fatto e subìto, non potranno mai riprendersi. Non so cosa significa vivere tutto ciò ma so solo che quando guardo i loro volti così giovani una tenaglia mi attorciglia lo stomaco e il cuore. E penso che se fossi madre non permetterei in nessun modo a mio figlio o mia figlia di andare a combattere. Non permetterei a loro di vivere una simile violenza.
La guerra genera odio, tantissimo odio. Ed è forse questo che mi terrorizza di più. L’odio si insinua nelle persone senza rumore, ha la vista acuta del cecchino, è maestro del contrasto tra sangue rosso e neve bianca, si annida nei cuori silenziosamente.
Ho visto persone con tanti segni nel viso, ma anche con tanti sogni negli occhi.
Quanti di loro sopravviveranno per dare vita ai loro sogni?

Liry
Non ho sogni ma desidero solo di vivere in un mondo migliore e senza guerre. Quest’ultima frase può sembrare il desiderio di un bambino ma nel 2023 è il desiderio di tutti noi, nessuno escluso. Anche chi ha vissuto una vita agiata ha bisogno d’amore e di pace.

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