La nebbia, storia di una psicosi. Tutto è iniziato quando sono tornata in camera dopo aver bevuto del vino e aspirato qualche tiro di sigaretta non proprio sigaretta. Ha iniziato a cambiare colore tutto intorno: i colori non erano più nitidi e veritieri; tutto si era fatto di una sfumatura tetra, di penombra, ma che lì per lì pensavo soft. In quei giorni persi la cognizione del tempo: non pensavo più al lavoro, stavo male e non capivo. Niente di buono dalle amicizie. Avevo paura ma non trovavo nessuno che mi aiutasse. Quei giorni sono uno spartiacque nella vita difficile di Debora. La separazione precoce dei genitori, l’allontanamento della madre e la rincorsa degli affetti, una carriera scolastica superata con qualche inciampo fino al diploma, gli studi universitari negati per ristrettezze economiche. Un equilibrio interiore che si spezza nel settembre 1996 per una malattia che causa la morte prematura della madre. Ormai stava davvero male: non parlava, non mangiava e non riusciva a bere bene, aveva le labbra secche. Se ne andò guardandomi. Ci guardammo dritte negli occhi. In quel preciso istante capii il limite umano e l’impossibilità di fare miracoli. Non ebbi il coraggio di prenderle la mano. Non ero preparata. Seppi soltanto suonare la chiamata all’infermeria ed accorse una dottoressa. Le stette vicina. Io ero uscita dalla stanza e seduta spalle al muro in terra mi abbracciavo le ginocchia piangendo. Il trauma spinge Debora all’interno di quella nebbia e verso il ricovero in una clinica psichiatrica: dopo un mese torna a vivere a casa del padre dove, grazie alle attenzioni e al conforto dell’ambiente domestico, ritrova la serenità perduta. Ma anche questa nuova stabilità è destinata a infrangersi: un’altra malattia la priva nel giro di poco tempo del secondo genitore e dell’ultimo punto di riferimento importante della sua vita. Debora cerca di reagire: già negli ultimi mesi di vita del padre si era iscritta al corso in Tecniche della riabilitazione psichiatrica presso l’Università cattolica del Sacro Cuore, frequenta le lezioni e si impegna per ottenere la laurea. Finché le inquietudini tornano a prendere il sopravvento e si ritrova sempre più isolata. Riallaccia e perde i legami con amici e parenti, in particolare la zia Sesè con la quale convive per sette anni, quando perde il lavoro e i piccoli benefici di una pensione che le era stata inizialmente riconosciuta per invalidità civile. Ormai priva di un’indipendenza economica, spossata dalle cure farmacologiche che le vengono prescritte, Debora vaga inizialmente verso Venezia, una città dei sogni dove va in cerca di un lavoro che non riesce a trovare. Tornata a Roma, si ritrova smarrita: Avevo perso ogni punto di riferimento e non sapevo dove approdare, non avevo dove andare. Avevo quarant’anni ed iniziava così il mio on the road: ero una senza tetto che viveva per la strada. La prima settimana è stata la più dura: non sapevo dove andare, che fare, a chi rivolgermi, ma in fondo la verità era che non riuscivo a rivolgermi a nessuno, un po’ per paura e un po’ per vergogna. Paura di cosa? Di essere presa in giro ma soprattutto di disturbare ed essere inopportuna. Debora si arrangia come può per sopravvivere, scopre che esistono chiese che offrono ospitalità ai senza tetto di notte, associazioni che distribuiscono pasti, docce pubbliche. Familiarizza con altri ragazzi che vivono la sua condizione e si sente meno sola. Trascorre così cinque anni, prima di un nuovo ricovero ospedaliero che è il preludio al trasferimento nella comunità riabilitativa Montesanto, dove trova un ambiente professionale e umano che contribuisce a restituirle un nuovo slancio vitale.