La povertà è uno stigma, che ti impedisce l’accesso all’istruzione, che ti preclude le cure se sei malato e ti costringe a emigrare, sin da piccolo, in cerca di lavoro. Ado Clocchiatti è segnato dalla nascita: Udine, 1883, figlio di un conciapelli, a scuola è bravo e a 10 anni finisce le elementari “con distinzione”. Il maestro vorrebbe che proseguisse gli studi ma il padre soffre di reumatismi, non ce la fa più a lavorare. Tocca già a lui. Un uomo offre una piccola somma alla famiglia per portarlo a lavorare in una fabbrica di mattoni in Baviera. I genitori si tormentano ma non c’è scelta. Il bambino si carica tutto sulle spalle e li rassicura. È fatta, si parte: aprile 1894, Ado non ha ancora compiuto 11 anni. Io non aveva mai viaggiato ed era confuso nel vedere tanta gente; chi cantava chi bestemmiava chi piangeva, tutta quella povera gente, venduti si può dire ai padroni. Mentre quei signori tedeschi ridevano al vedermi un così piccolo migrante. È la prima di una serie di migrazioni stagionali che scandiscono gli anni dell’adolescenza e della maturità. Lavori durissimi, condizioni di vita al limite della sopravvivenza e violenze subite. Il padrone comincio a farci alzare appena il primo raggio dell’alba spuntava sull’orizzonte e fino a che non era notte inoltrata non ci lasciava il lavoro, agiungendoci però l’intera giornata implicazioni, minaccie ed a noi ragazzi, se ci trovava un secondo minuto per combinazione in riposo, allora con un bastone che lui teneva in mano ci dava botte quasi da rovinarci. Come quella volta che in un accesso d’ira, il tiranno gli spezza un dito del piede con una tallonata. E pensare che il mostro è un friulano, come lui, al servizio dei tedeschi. Ma Ado resiste e gioisce di poter inviare a casa il poco denaro che guadagna, per aiutare la famiglia in crescente difficoltà: la frustrazione per non riuscire a mantenere i propri cari spinge il padre sull’orlo del suicidio, mentre la madre si ammala e uno dei fratellini muore in età infantile. C’è solo l’amore a restituire un senso. Dopo una lunga agonia nel 1909 la madre muore, mentre per il padre, sfinito nel corpo e nella mente, si aprono le porte del manicomio. Ado continua a fare la spola tra il suo Friuli e le fabbriche d’oltralpe per riuscire a sfamarsi. Nei nostri paesi non erano lavori maledetta patria dicevo tra mè, maledetti signori. Non è uno sfogo casuale. La memoria della sua vita Ado la scrive nel 1916 alla vigilia della chiamata alle armi nella Prima guerra mondiale. Intanto è riuscito a sposarsi e ad avere un bambino che ha chiamato Regolo. Quella “maledetta patria” che lo ha inchiodato a una vita di migrazioni e miserie, che gli ha impedito di istruirsi e curare le persone amate, adesso gli chiede la vita per combattere il “nemico” dal quale ha dovuto elemosinare lavoro sin da bambino. Oggi 27 luglio che scrivo parto anche io sotto le armi, compiendo il mio dovere verso la famiglia che tanto amo, e col cuore straziato devo lasciare la mia amata moglie ed il mio adorato Regolo che chiama sempre pappa e che fù la mia gioia ed è la mia speranza. Voglia Iddio concedermi grazia di ritornare e scrivere altre pagine di vita. Ado Clocchiatti muore per malattia il 7 ottobre 1918, a meno di un mese dalla fine della Grande Guerra. Era diventato padre una seconda volta, ma non ha avuto abbastanza vita per scriverlo nelle sue memorie.
MOTIVAZIONE DELLA GIURIA NAZIONALE:
Il Premio Pieve Saverio Tutino 2022 è stato attribuito ad Ado Clocchiatti con Addio patria matrigna (memoria 1883-1916):
In questa memoria di una vita breve e struggente, scritta con una intensità che coinvolge e commuove, emergono la saggezza e la rassegnazione di un vinto che sa di non poter cambiare il proprio destino.
Durante la Prima Guerra mondiale, Ado, da pochi anni sposo e padre, forse presagendo che non riuscirà a tornare a casa (morirà di spagnola nel 1918) decide di raccontare la sua storia. Friulano, nato in una famiglia poverissima nel 1883 a Pasian di Prato, nonostante sia uno dei migliori allievi della scuola elementare deve iniziare a lavorare ad appena 10 anni per contribuire al sostentamento della famiglia. Ma il lavoro non c’è e inizia così una lunga storia di migrazione stagionale in Germania e nel vicino Impero austro ungarico. Ado ci racconta dall’interno la tragedia dello sfruttamento minorile, perché i bambini vengono messi a lavorare in condizioni terribili. Maltrattamenti, fame e violenze fisiche erano quotidiane. “Un povero per vivere deve soffocare l’amore e viene condannato a vivere come la bestia, lavorare, mangiare, se un povero avesse i sentimenti di divenire un uomo, per mancanza di mezzi deve rimanere ignorante, così va il mondo.”
Ma Ado diventerà un uomo, fin troppo presto. Lavorerà sempre, perché i genitori malati non riescono a provvedere alla famiglia. C’è un movimento continuo di partenze e ritorni. Più si rende conto della fragilità dei genitori, più il giovanissimo Ado si assume quasi il compito di tenere insieme i suoi cari. Ma la speranza di restare uniti viene continuamente frustrata dalla mancanza di lavoro. Il legame con il padre diventa inscindibile. Emigrano e cercano di trovare lavoro negli stessi cantieri, passando per Vienna e Abbazia dove scoprono le bellezze dell’archittettura, delle città e del mare che gli era sempre stata negata. Il rapporto di protezione reciproca via via si rovescia perché diventa il più giovane a prendersi cura dell’altro: per il padre sfinito nel corpo e nella mente si aprono le porte del manicomio. “Io facevo quei muri, proprio quella casa, che in compagnia di quei poveri dementi che dovevano entrarvi era pure destinato il mio buon padre!”
Il destino non vuole dare tregua ad Ado: anche se non gli rimangono molte “pagine di vita” da scrivere, la sua testimonianza brilla per profondità e umanità e riscatta la brutalità dell’esistenza a cui è stato condannato.